Aprire le porte

Negli stage di formazione usiamo spesso questa metafora: aprire le porte.

E’ come se la mediazione permettesse di entrare in contatto con un desiderio profondo di trasformazione, di cambiamento che ognuno di noi porta con sé in modo diverso in ogni fase della propria vita.

In questo senso possiamo pensare ai momenti di lavoro con questo strumento, che siano stage di formazione, autoformazioni, sensibilizzazioni o mediazioni poco importa, come uno spazio di cura che permette di posizionare finalmente lo sguardo sui bisogni fondamentali.

Ed è evidente come ci sia una fame di ascolto, di un linguaggio diverso, di tempo.
E’ evidente come ci sia bisogno di entrare in contatto con il nostro bisogno di pace.

Ecco allora che la metafora delle porte aperte prende forma nell’identificare i pesi che portiamo, accettarli e lasciarli andare per rendersi disponibili ad una nuova visione della vita.

Questa immagine ci aiuta a ritrovare la speranza quando ci sentiamo tanto e inevitabilmente sommersi dalle emozioni, dai conflitti, dal prezzo delle nostre scelte.

La mediazione non è una terapia anche se per tanti è un modo di prendersi cura di sé, di curare vecchie ferite e riprendere forza.

E’ piuttosto un modo di abitare la vita, di guardare alle relazioni, alle domande più profonde che l’essere umano da sempre si pone.

E’ una proposta che può far paura perché tanta è la luce che viene dallo spiraglio di quelle porte che si aprono di fronte a noi e ci danno la possibilità di rinascere.

E’ un impegno verso se stessi a guardarsi dritti nell’anima con sincerità e calore.

Non c’è niente da capire

La mediazione è sempre una sorpresa e una conferma allo stesso tempo.
Una sorpresa perché ogni nuova esperienza permette di scoprire qualcosa di inaspettato di sé, permette di gettare ponti e relazioni significative con una nuova comunità che si va a creare, permette di tornare a casa con un desiderio rinnovato di mettersi in gioco, condividere, approfondire.

Ed è una conferma perché ogni volta si creano gli stessi sorrisi, le stesse illuminazioni, la stessa pace nel cuore.

Gli appuntamenti formativi di questi anni hanno finora mantenuto le attese con l’aggiunta di un fermento che si va a sviluppare intorno alle diverse comunità incontrate soprattutto quella dei partecipanti al corso che tornano nelle proprie città carichi di tanti stimoli da rielaborare e far fruttificare nei rispettivi territori.

Nei giorni di lavoro si respira una grande energia negli scambi e negli sguardi che guardano lontano.

Per l’associazione questo è uno degli obiettivi più ambiziosi, non tanto formare mediatori, ma condividere e far sperimentare uno spirito di incontro tra le persone e dare il proprio contributo perché questo possa radicarsi sempre più nei diversi territori con i quali Snodi entra in contatto.

Anche perché le occasioni di incontro ci portano spesso a confrontarci con l’inutilità di ricercare tecniche e metodi i quali hanno senso solo se possiamo far nostro il senso della proposta della mediazione ovvero il vivere pienamente il presente lasciando la paura del passato e l’ansia del futuro.

La mediazione ha così poco di razionale da offrire, ma propone un’esperienza che spesso chi vive dice di aver a lungo cercato.

Forse si può sintetizzare questo concetto nelle parole di Jacqueline Morineau:
“Non c’è niente da capire nella mediazione! Lascia venire, lascia vivere!”.

Il punto di non ritorno

E così il miracolo si è compiuto anche stavolta.
Lo stage di formazione sulla mediazione umanistica ha regalato anche questa volta quella inconfondibile sensazione di benessere, di chiarezza, di apertura di cuore che inseguiamo nella nostra vita.
Quella sensazione, quel senso di forza, centratura che tanto desideriamo quanto schiviamo nel nostro vorticoso tran tran quotidiano.

Come un meccanismo conosciuto i due giorni di formazione si sono saldati l’uno all’altro mettendo in scena quel processo di lenta apertura, fiducia, confronto autentico a quel livello profondamente umano che questa mediazione sa offrire.

C’è stata la confusione iniziale, il caos delle emozioni, l’urlo liberatorio e poi lo squarcio su un modo diverso di percepire la vita, l’altro, i conflitti. Conflitti ancora una volta smascherati nel loro essere paravento di una ricerca che va ben al di là del problema in sé.

E poi ci si abbraccia , ci si saluta sospinti da un’energia nuova, da consapevolezze ritrovata o scoperte per la prima volta.

E poi si riparte il giorno dopo ad affrontare la vita che nel giro di qualche giorno ti riassorbe nei suoi meccanismi, nelle sue ruote che girano veloci, nei suoi ingranaggi spesso troppo rigidi per sapersi e potersi adattare.
E quell’energia faticosamente emersa si spegne, si offusca, slitta in secondo piano relegando l’esperienza appena vissuta in una specie di limbo al quale presto desiderare tornare. Coi nostri acciacchi, coi nostri tentativi andati a vuoto, coi nostri “non so”.

La mediazione umanistica ripropone ogni volta la contraddizione che viviamo quotidianamente tra il desiderio di una connessione con qualcosa di più grande e la frammentazione di noi stessi persi nella modernità. E ci stimola ogni volta a ricercare una maggiore congruenza in questa ricerca che ad un certo punto esigerà un equilibrio, magari anche attraverso un forte cambiamento.

Incontrare l’uomo

Altra due giorni milanese di mediazione umanistica.
Altra occasione di toccare con mano questa proposta che per tanti risulta al primo approccio strana quanto affascinante.
Forse perché si va ben al di là di una tecnica, attraverso un modello che, usando le parole dei partecipanti, permette di “vivere da dentro” la mediazione, di “conoscerla da un angolo che permette di praticarla con sempre maggiore creatività”.

E il lato strano e affascinante si saldano nella possibilità di incontrare l’uomo, di entrare in contatto con la dimensione più profonda e vera dell’essere umano. Qui risiede buona parte del segreto di questa forma di mediazione, un segreto poco nascosto bensì alla base di tutta la proposta ma comunque all’inizio, nel primo timido e a volte irrazionale approccio, poco consapevole ed evidente.

Per tutte le persone che vengono agli stage appare gradualmente sempre più chiara l’importanza di poter assoporare il contatto con una relazione antica ed essenziale, quella che permette di diventare esseri umani nel nostro inestricabile legame con gli altri, nel nostro inestricabile legame con le ragioni del cuore, nel nostro desiderio di vivere ad un’altra intensità vitale.

E’ stato bello ascoltare da alcuni dei partecipanti che Snodi rappresenta una forma di casa, una casa all’interno della quale poter dare continuità al percorso personale all’interno della mediazione. Come se nelle proposte di questi anni alcuni abbiamo potuto trovare nella mediazione una base buona da integrare nella propria vita sempre di più.
Questo il regalo più bello, quello che ci permette di andare avanti nel nostro percorso di continuo cambiamento, di gioia nell’incontro, di “silenzio partecipato”.