Lo spazio per sé

Ci ritroviamo spesso travolti da un quotidiano esigente, da ritmi che fatichiamo a fare nostri, da una realtà della quale perdiamo il senso, da relazioni delle quali non vediamo più la bellezza. Sentiamo chiaramente come questo stato delle cose non ci appartenga come essere umani, che ci appensantisce e ci allontana dagli altri e dai noi stessi, dal nostro essere vivi, pieni.

Forse è per questo che, durante gli incontri di mediazione umanistica, affascina tanto l’atmosfera che si crea fatta di tempi personali e soprattutto di impagabili e riposanti silenzi.
Si ritrova in queste occasioni il contatto con quel tempo giusto che immediatamente riconosciamo, ci rimettiamo in contatto con l’essenziale, facciamo chiarezza nella confusione delle emozioni.

Il gruppo è il grande valore aggiunto alla costruzione di questa atmosfera attraverso la condivisione di esperienze di vita, il contatto e la vicinanza umana, la possibilità di creare sintonia e intimità attraverso i piccoli numeri, fuori dalla tentazione di ingolfarsi di ulteriori parole.
E’ l’occasione di recuperare il nostro centro, ascoltarci, andare al cuore.

La mediazione umanistica è un esercizio quotidiano, un modo di vivere, di essere: è la proposta di portare fuori dai contesti formativi e di mediazione la speranza e la pratica di una società più bella.

Aprire le porte

Negli stage di formazione usiamo spesso questa metafora: aprire le porte.

E’ come se la mediazione permettesse di entrare in contatto con un desiderio profondo di trasformazione, di cambiamento che ognuno di noi porta con sé in modo diverso in ogni fase della propria vita.

In questo senso possiamo pensare ai momenti di lavoro con questo strumento, che siano stage di formazione, autoformazioni, sensibilizzazioni o mediazioni poco importa, come uno spazio di cura che permette di posizionare finalmente lo sguardo sui bisogni fondamentali.

Ed è evidente come ci sia una fame di ascolto, di un linguaggio diverso, di tempo.
E’ evidente come ci sia bisogno di entrare in contatto con il nostro bisogno di pace.

Ecco allora che la metafora delle porte aperte prende forma nell’identificare i pesi che portiamo, accettarli e lasciarli andare per rendersi disponibili ad una nuova visione della vita.

Questa immagine ci aiuta a ritrovare la speranza quando ci sentiamo tanto e inevitabilmente sommersi dalle emozioni, dai conflitti, dal prezzo delle nostre scelte.

La mediazione non è una terapia anche se per tanti è un modo di prendersi cura di sé, di curare vecchie ferite e riprendere forza.

E’ piuttosto un modo di abitare la vita, di guardare alle relazioni, alle domande più profonde che l’essere umano da sempre si pone.

E’ una proposta che può far paura perché tanta è la luce che viene dallo spiraglio di quelle porte che si aprono di fronte a noi e ci danno la possibilità di rinascere.

E’ un impegno verso se stessi a guardarsi dritti nell’anima con sincerità e calore.

Non c’è niente da capire

La mediazione è sempre una sorpresa e una conferma allo stesso tempo.
Una sorpresa perché ogni nuova esperienza permette di scoprire qualcosa di inaspettato di sé, permette di gettare ponti e relazioni significative con una nuova comunità che si va a creare, permette di tornare a casa con un desiderio rinnovato di mettersi in gioco, condividere, approfondire.

Ed è una conferma perché ogni volta si creano gli stessi sorrisi, le stesse illuminazioni, la stessa pace nel cuore.

Gli appuntamenti formativi di questi anni hanno finora mantenuto le attese con l’aggiunta di un fermento che si va a sviluppare intorno alle diverse comunità incontrate soprattutto quella dei partecipanti al corso che tornano nelle proprie città carichi di tanti stimoli da rielaborare e far fruttificare nei rispettivi territori.

Nei giorni di lavoro si respira una grande energia negli scambi e negli sguardi che guardano lontano.

Per l’associazione questo è uno degli obiettivi più ambiziosi, non tanto formare mediatori, ma condividere e far sperimentare uno spirito di incontro tra le persone e dare il proprio contributo perché questo possa radicarsi sempre più nei diversi territori con i quali Snodi entra in contatto.

Anche perché le occasioni di incontro ci portano spesso a confrontarci con l’inutilità di ricercare tecniche e metodi i quali hanno senso solo se possiamo far nostro il senso della proposta della mediazione ovvero il vivere pienamente il presente lasciando la paura del passato e l’ansia del futuro.

La mediazione ha così poco di razionale da offrire, ma propone un’esperienza che spesso chi vive dice di aver a lungo cercato.

Forse si può sintetizzare questo concetto nelle parole di Jacqueline Morineau:
“Non c’è niente da capire nella mediazione! Lascia venire, lascia vivere!”.

L’oggetto mediatore

Per tutti quelli che un po’ conoscono la mediazione umanistica, secondo le linee proposte da jacqueline morineau, il gioco dell’oggetto mediatore ricorda qualcosa di molto preciso e forse riecheggiano già nella mente e nella pancia forti sensazioni provate nei vari stage di formazione.

Per quelli che invece sono ancora lì a grattarsi la testa per capire di cosa stiamo parlando… beh, proprio a loro sono dedicate le prossime righe.

Spesso quando vogliamo dire qualcosa di noi non siamo in grado di farlo in modo tanto spontaneo e semplice. A volte è una questione di confusione perché non siamo abituati a parlare di come stiamo in modo esplicito, altre volte invece è una questione di scarsa abitudine a parlare di sé all’interno di un gruppo, altre volte ancora è il particolare momento della vita a rendere difficile la cosa.

Per questo spesso può aiutare un supporto, un oggetto o un’immagine che aiuti l’espressione, che in qualche modo sappia farsi mediatore tra quello che una persona è in quel momento e la condivisione con gli altri.

E’ incredibile quanto la presenza così semplice di oggetti, spesso insignificanti o proprio al primo sguardo anche brutti, possa poi caricarsi di significati inaspettati e donarci una chiarezza sul nostro stato d’animo di adesso davvero sorprendente.

Sarà che gli oggetti sanno essere silenziosi e ti danno tutto il tempo di cercare e dire quello che c’è.

Ed è bello vedere i gesti di chi parla di sé accarezzando e facendo suo un piccolo pezzo di coccio, una bambola di pezza, una foglia secca, un gioiello colorato.

Questo esercizio è un’eccezionale porta di accesso all’intimità, sia quella personale che del gruppo col quale si comincia a lavorare all’interno degli stage di formazione. E’ un sorta di riscaldamento che ci trasporta verso un altro modo di stare insieme, verso un’altra maniera di sentire, verso un’altra scansione del tempo.

Insomma è un intermediario semplice verso il tavolo della mediazione, come verso la conoscenza più profonda di sé, qualsiasi sia lo strumento utilizzato.

Ogni volta che viene proposta nei contesti formativi l’attività dell’oggetto mediatore stupisce, sia quelli che da tempo ne conoscono le forme, sia chi per la prima volta ne assaporava i contorni e gli effetti.

E’ bello vedere i visi dei presenti trasformarsi e distendersi alla ricerca dell’obiettivo che tutti cerchiamo nel nostro cammino: essere davvero noi stessi, senza maschere e senza paure.

Mediazioni imperfette

Le mediazioni sono tutte imperfette.

La nostra illusione di poter risolvere, di poter togliere dalla scena i conflitti è una tentazione sempre troppo forte per essere tenuta a bada. Non riusciamo a metterla da parte.

L’istinto del pompiere, del pacificatore, del guaritore sono connaturati al nostro pensiero. Cosicché ogni nostra azione ha la pretesa di essere risolutiva, capace di andare fino in fondo. Senza sapere bene dove sia questo grado, questo limite toccato il quale tutti i problemi scompaiono per sempre.

Come se da quel punto in poi la vita non ci chiedesse più di fare i conti con lei.

E così ci approcciamo alla mediazione convinti che si possa imparare ad acquisire un potere risolutivo che non ci appartiene. E di fronte alla mutevole forma dei conflitti, alle profonde implicazioni che ne emergono, ai cancelli invalicabili che le persone pongono chiedendone il rispetto, l’aspirante mediatore si ritrova impotente, spesso insoddisfatto, come se le sue arti non fossero mai abbastanza sviluppate e affinate.

Nella mediazione umanistica spesso si usa dire che il mediatore non sa fare niente, non deve fare niente ma deve imparare ad esserci, ad offrire una presenza di spirito che nulla ha a che fare con una tecnica. Ed è facile ribattere che una posizione del genere non sia sostenibile per un professionista, che non possa essere ammissibile mediare senza offrire un risultato. Che questa storia dell’esserci ha più vicina ai racconti zen che non a questioni di ADR.

Forse per questo altre forme di mediazione si sono fatte strada in modo più rapido proprio perché sanno rispondere meglio alle esigenze di tangibilità e praticità del nostro tempo. Per poi ritrovarsi in qualche modo monche di una parte importante che c’è ma non si vede. Altre forme di mediazione hanno offerto quello sguardo di intesa e quella stretta di mano finale che dicono al mondo che quel problema non esiste più, che così come è venuto se ne è andato e tutti felici e contenti. E magari va veramente bene così.

Forse è semplicemente un’altra cosa che chiamiamo con lo stesso nome.

La sfida della mediazione umanistica è molto alta e deve fare i conti con un contesto culturale ancora poco pronto a recepire la proposta non tanto di uno strumento ma di un cambiamento nel modo di vivere, nel recuperare la dimensione spirituale non tanto nella stanza di mediazione ma prima di tutto nella vita di tutti i giorni.

Ma probabilmente e paradossalmente proprio per questo la visione che offre attira così tanto e chi ne sperimenta il gusto è come costretto a non tornare più indietro, a cominciare un cammino lungo tutta una nuova direzione. Come se venisse toccato su dei tasti che innestano in modo quasi automatico tutta una serie di reazioni a catena.

Accettare di essere davvero a disposizione di un processo che è nelle mani di chi lo porta è complicato.

Accettare che non possiamo controllare tutto, anzi forse molto poco, è difficile.

Accettare che ogni persona è padrona dei passi che si sente in grado di fare è pesante.

Accogliere che siamo strumenti di qualcosa di più grande è sorprendente. E, in certi giorni, estremamente reale.

Lo strano caso della mediazione umanistica

La parola mediazione comincia ad essere di moda.
Nel linguaggio comune già la usiamo per indicare la via di mezzo, quelle situazioni nelle quali si trova un buon modo di mettere d’accordo due persone, di smorzare un litigio, di trovare un ottimo compromesso accettabile.
Ultimamente quello che si fa largo è un concetto più raffinato che indica una tecnica di lavoro, una teoria e una nuova cultura delle relazioni.

La mediazione non è qualcosa di nuovo in assoluto, bensì una riscoperta che parte da molto lontano. Oggi se ne parla soprattutto come possibile alternativa al consueto modo di condurre un processo penale, offrire un’altra maniera di gestire le controversie piccole e grandi che spesso si trascinano nel tempo fino alle aule di tribunale. Così la mediazione si propone come strumento di gestione dei conflitti che a dirla tutta già era nella mani degli avvocati ma che ha trovato pochi margini per svilupparsi.

Per tante ragioni oggi i tempi sembrano maturi per una diversa entrata in scena della mediazione, un po’ perché la giustizia è davvero in crisi (siamo quasi a 5 milioni di cause pendenti in italia), un po’ perché le risposte che si ottengono dal giudice non sembrano essere soddisfacenti né per chi ha ragione né tanto-meno per chi ha torto. Anche perché il torto e la ragione spesso non sono una questione di regolamenti e di logica. E in alcune situazioni, specie quando ci sono di mezzo i rapporti più intimi, questo dato risulta eclatante.

Si parla quindi di mediazione soprattutto per quando riguarda il contesto familiare e di fronte al proliferare di separazioni (ormai siamo quasi a 2 coppie su 3 nel nostro paese) si tenta anche questa carta.
C’è tutto l’ambito della mediazione commerciale, quella che spesso viene anche definita con il termine conciliazione per trovare un accordo fuori dalle aule di tribunale rispetto a controversie che più facilmente possono trovare un beneficio per entrambe le parti.
Ed è arduo riuscire a districarsi nel dedalo di proposte che si presentano tutte sotto l’etichetta della mediazione, proposte che a volte hanno un sapore più giuridico, a volte più psicologico, a volte più sociale.

La mediazione umanistica rientra in questo contenitore affollato al quale serviranno ancora molti anni per fare chiarezza.
Di certo mi sento di dire che questo tipo di mediazione offre qualcosa di anomalo. Offre uno spazio di lavoro che è difficile definire con una tecnica, esce dalle logiche di praticità che accomunano gli altri modi di fare mediazione. Fa una specie di salto verso un modo di guardare oltre i problemi che le parti portano. Apre uno spiraglio per guardarsi allo specchio per mettersi consapevolmente in cammino verso la scoperta di chi siamo.

Ma come fai a spiegarla una cosa così?
Se sei una persona concreta e ti piace la solidità dei dati, i punti fermi, la possibilità di misurare è oltremodo sconvolgente scoprire che c’è tutta una parte della nostra esperienza quotidiana che non si arrende ai tentativi di classificare, misurare, conoscere.
Ed è quella dimensione che forse riusciamo ancora a scorgere nell’arte, nella natura, negli sguardi.
Per questo forse il modo più facile per capire il fulcro della mediazione umanistica è riproporre l’immagine di chi sta di fronte al mare o sotto il cielo e non sa bene a cosa sta pensando ma sa che le domande sono grandi e il momento solenne.