La parola mediazione comincia ad essere di moda.
Nel linguaggio comune già la usiamo per indicare la via di mezzo, quelle situazioni nelle quali si trova un buon modo di mettere d’accordo due persone, di smorzare un litigio, di trovare un ottimo compromesso accettabile.
Ultimamente quello che si fa largo è un concetto più raffinato che indica una tecnica di lavoro, una teoria e una nuova cultura delle relazioni.
La mediazione non è qualcosa di nuovo in assoluto, bensì una riscoperta che parte da molto lontano. Oggi se ne parla soprattutto come possibile alternativa al consueto modo di condurre un processo penale, offrire un’altra maniera di gestire le controversie piccole e grandi che spesso si trascinano nel tempo fino alle aule di tribunale. Così la mediazione si propone come strumento di gestione dei conflitti che a dirla tutta già era nella mani degli avvocati ma che ha trovato pochi margini per svilupparsi.
Per tante ragioni oggi i tempi sembrano maturi per una diversa entrata in scena della mediazione, un po’ perché la giustizia è davvero in crisi (siamo quasi a 5 milioni di cause pendenti in italia), un po’ perché le risposte che si ottengono dal giudice non sembrano essere soddisfacenti né per chi ha ragione né tanto-meno per chi ha torto. Anche perché il torto e la ragione spesso non sono una questione di regolamenti e di logica. E in alcune situazioni, specie quando ci sono di mezzo i rapporti più intimi, questo dato risulta eclatante.
Si parla quindi di mediazione soprattutto per quando riguarda il contesto familiare e di fronte al proliferare di separazioni (ormai siamo quasi a 2 coppie su 3 nel nostro paese) si tenta anche questa carta.
C’è tutto l’ambito della mediazione commerciale, quella che spesso viene anche definita con il termine conciliazione per trovare un accordo fuori dalle aule di tribunale rispetto a controversie che più facilmente possono trovare un beneficio per entrambe le parti.
Ed è arduo riuscire a districarsi nel dedalo di proposte che si presentano tutte sotto l’etichetta della mediazione, proposte che a volte hanno un sapore più giuridico, a volte più psicologico, a volte più sociale.
La mediazione umanistica rientra in questo contenitore affollato al quale serviranno ancora molti anni per fare chiarezza.
Di certo mi sento di dire che questo tipo di mediazione offre qualcosa di anomalo. Offre uno spazio di lavoro che è difficile definire con una tecnica, esce dalle logiche di praticità che accomunano gli altri modi di fare mediazione. Fa una specie di salto verso un modo di guardare oltre i problemi che le parti portano. Apre uno spiraglio per guardarsi allo specchio per mettersi consapevolmente in cammino verso la scoperta di chi siamo.
Ma come fai a spiegarla una cosa così?
Se sei una persona concreta e ti piace la solidità dei dati, i punti fermi, la possibilità di misurare è oltremodo sconvolgente scoprire che c’è tutta una parte della nostra esperienza quotidiana che non si arrende ai tentativi di classificare, misurare, conoscere.
Ed è quella dimensione che forse riusciamo ancora a scorgere nell’arte, nella natura, negli sguardi.
Per questo forse il modo più facile per capire il fulcro della mediazione umanistica è riproporre l’immagine di chi sta di fronte al mare o sotto il cielo e non sa bene a cosa sta pensando ma sa che le domande sono grandi e il momento solenne.