Portoni chiusi

Il mediatore all’inizio vuole risolvere. Vuole arrivare al cuore della sofferenza ed estirparla come un veleno.
Desidera toccare la verità dei confliggenti per liberarli e fargli sentire la vita.

Poi il mediatore incontra i confliggenti e i loro limiti. Incontra il loro essere padroni indiscussi delle proprie emozioni, dei propri giardini segreti, spesso tenuti sottochiave agli altri e tante volte anche a se stessi.

Così percorrere i gradini e i passi che conducono alla libertà mostra il limite che il confliggente pone, il suo non essere pronto al salto, non essere disposto ad aprire lo sguardo, a vedere la chiave che apre il portone.

Ogni mediatore arriva fin dove gli è concesso e con umiltà si ferma, accetta i tempi delle persone, li accompagna, li sostiene in questa nuova ricerca che per ognuno è diversa, unica, irripetibile.
E’ un bell’esercizio nella modernità dei manuali per ogni cosa, delle soluzioni facili e veloci.

Sapersi fermare davanti al portone chiuso dell’altro è saper vedere la differenza tra il proprio desiderio di aiutare e il percorso personale che ognuno ha potuto compiere. E’ saper trovare il proprio centro per rispettare la ricerca e i tempi dell’altro.
Non serve a niente sbattere, forzare, spingere.
La chiave del portone non è nelle mani del mediatore.

L’equivoco della mediazione umanistica

“Faccio tutto fuorchè fare la mediazione” (J.Morineau).

Nella mediazione umanistica non si offrono tecniche ma solo esperienze di vita, pezzi di consapevolezze messe insieme nel tempo, negli incontri, nella graduale e misteriosa esplorazione di sé.
Certo la tecnica ha la sua importanza, offre un punto di appiglio, un codice al quale riferirsi. E quando entriamo in logiche tanto scomode e lontane dai nostri schemi mentali e dal nostro quotidiano come quelle proposte da questo tipo di mediazione, c’è tanto bisogno di un preciso punto di riferimento che permetta di avere in mano uno strumento per esercitare le nostre parti atrofizzate.

Così come il silenzio esteriore aiuta a trovare quello interiore.
Così come la solidità della montagna fa scoprire la propria forza di pietra.
Così come il contatto con la terra offre la porta alle proprie radici più umili e sacre.

La tecnica è un punto di partenza, non un punto di arrivo. E’ il libro che una volta raccolto in tutte le sue pagine può essere letto più volte e diventare parte di te. E’ l’artificio che permette il cambiamento. Perchè è il cambiamento interiore l’obiettivo, lo sguardo nuovo. Non inseguire procedure.

La mediazione umanistica ha un percorso strano ai nostri occhi moderni; un percorso peculiare, difficile da inquadrare negli schemi di altre discipline come in quelli di quasi omonime discipline, che ne condividono le diciture ma non l’essenza. Che appaiono più comode ma dal sapore più sbiadito.
Forse più di altre proposte la mediazione umanistica è riuscita ad integrare i bisogni profondi dell’uomo: il grido esistenziale di fronte alla morte, l’unione con lo spirituale e con la natura, la ricerca del senso e dei valori più alti che possiamo immaginare e sognare.

Forse è scorretto darle questo nome, chiamarla mediazione perchè è un’altra cosa: è l’arte di vivere pienamente anche quando tutte le stelle del cielo si sono oscurate.

E’ la disciplina interiore del conosci te stesso di Socrate e delle letture profonde e riservate dei testi sacri, qualsiasi sia il tuo sacro.

Aprire le porte

Negli stage di formazione usiamo spesso questa metafora: aprire le porte.

E’ come se la mediazione permettesse di entrare in contatto con un desiderio profondo di trasformazione, di cambiamento che ognuno di noi porta con sé in modo diverso in ogni fase della propria vita.

In questo senso possiamo pensare ai momenti di lavoro con questo strumento, che siano stage di formazione, autoformazioni, sensibilizzazioni o mediazioni poco importa, come uno spazio di cura che permette di posizionare finalmente lo sguardo sui bisogni fondamentali.

Ed è evidente come ci sia una fame di ascolto, di un linguaggio diverso, di tempo.
E’ evidente come ci sia bisogno di entrare in contatto con il nostro bisogno di pace.

Ecco allora che la metafora delle porte aperte prende forma nell’identificare i pesi che portiamo, accettarli e lasciarli andare per rendersi disponibili ad una nuova visione della vita.

Questa immagine ci aiuta a ritrovare la speranza quando ci sentiamo tanto e inevitabilmente sommersi dalle emozioni, dai conflitti, dal prezzo delle nostre scelte.

La mediazione non è una terapia anche se per tanti è un modo di prendersi cura di sé, di curare vecchie ferite e riprendere forza.

E’ piuttosto un modo di abitare la vita, di guardare alle relazioni, alle domande più profonde che l’essere umano da sempre si pone.

E’ una proposta che può far paura perché tanta è la luce che viene dallo spiraglio di quelle porte che si aprono di fronte a noi e ci danno la possibilità di rinascere.

E’ un impegno verso se stessi a guardarsi dritti nell’anima con sincerità e calore.

Scintille

Si torna alla mediazione per tenere viva la scintilla. Intesa come speranza, come forza che permette di restare su un percorso difficile per quanto per molti ormai l’unico possibile.
Una scintilla che richiede di essere rinnovata ogni volta perché anche lo spirito ha bisogno di allenamento, ha bisogno di cura, ha bisogno di impegno.
L’immagine delle scintille accompagna spesso gli incontri di autoformazione, scintille intese come elementi che saldano, mettono insieme e al tempo stesso si diffondono, si espandono tutto intorno, attivano, mettono in moto.
E’ bello pensare così questi momenti di incontro, come occasione di rigenerazione personale, cemento delle relazioni e occasione di divulgazione di questo modo di intendere non tanto la mediazione ma la vita.
Come ogni volta c’è stato bisogno di mettere tanta energia per costruire quell’atmosfera dai contorni solenni che è la forza della mediazione e che permette di attivare con gradualità quel canale nascosto che solo sa parlare delle cose essenziali. E’ il linguaggio del cuore che emerge in queste occasioni, linguaggio che poco ha di razionale e che sempre più spesso risulta essere estremamente contagioso.
Così la ricerca di ognuno può fare un altro passo verso la frase di Nietzche, “ogni giorno divento chi sono”, la traccia essenziale per proseguire il lavoro.

Non c’è niente da capire

La mediazione è sempre una sorpresa e una conferma allo stesso tempo.
Una sorpresa perché ogni nuova esperienza permette di scoprire qualcosa di inaspettato di sé, permette di gettare ponti e relazioni significative con una nuova comunità che si va a creare, permette di tornare a casa con un desiderio rinnovato di mettersi in gioco, condividere, approfondire.

Ed è una conferma perché ogni volta si creano gli stessi sorrisi, le stesse illuminazioni, la stessa pace nel cuore.

Gli appuntamenti formativi di questi anni hanno finora mantenuto le attese con l’aggiunta di un fermento che si va a sviluppare intorno alle diverse comunità incontrate soprattutto quella dei partecipanti al corso che tornano nelle proprie città carichi di tanti stimoli da rielaborare e far fruttificare nei rispettivi territori.

Nei giorni di lavoro si respira una grande energia negli scambi e negli sguardi che guardano lontano.

Per l’associazione questo è uno degli obiettivi più ambiziosi, non tanto formare mediatori, ma condividere e far sperimentare uno spirito di incontro tra le persone e dare il proprio contributo perché questo possa radicarsi sempre più nei diversi territori con i quali Snodi entra in contatto.

Anche perché le occasioni di incontro ci portano spesso a confrontarci con l’inutilità di ricercare tecniche e metodi i quali hanno senso solo se possiamo far nostro il senso della proposta della mediazione ovvero il vivere pienamente il presente lasciando la paura del passato e l’ansia del futuro.

La mediazione ha così poco di razionale da offrire, ma propone un’esperienza che spesso chi vive dice di aver a lungo cercato.

Forse si può sintetizzare questo concetto nelle parole di Jacqueline Morineau:
“Non c’è niente da capire nella mediazione! Lascia venire, lascia vivere!”.

Manutenzioni

Manutenere è la parola d’ordine, l’azione più richiesta del nostro tempo così bravo a logorare, a consumare, a richiedere l’intervento di un bravo artigiano. Una bottega, un laboratorio di fini tocchi e sapienti accortezze.
Un lavoro che sempre più non possiamo permetterci di delegare ad altri: abbiamo bisogno di farlo proprio, di prenderne possesso, di dargli spazio, agio e dignità.
Forse qui sta il senso più profondo della proposta delle autoformazioni.
Potersi sperimentare certo ma se andiamo all’osso quello che preme è la possibilità di stare sul sentiero, di respirare l’aria che parla di mediazione umanistica o solo di vita umana.
Con tutta la consistenza delle parole che spesso passano in queste occasioni: libertà, verità, autenticità, essere finalmente se stessi.
Qualcuno ci scrive per dirci di sentire il bisogno di ricarica, di concedersi un nuovo momento per rigenerare un’anima che si è oscurata, appesantita, perduta.
La sfida più grande non è imparare un metodo, ma un modo di ritrovarsi, di mantenersi centrati e in cammino.

La sfida del quotidiano

Chi ha partecipato ad uno stage di mediazione umanistica conosce l’intensità di questa esperienza.

Difficile da raccontare, ancora più difficile da dimenticare nelle emozioni in movimento, nei collegamenti con le domande essenziali della vita, nella fatica fisica di sostenere lo spalancarsi di un mondo inaspettato. Quella fatica fisica che è frutto della poca abitudine che abbiamo a stare nel silenzio, a darci il tempo, a masticare la nostra emotività sgangherata. Quella fatica fisica ad esserci, ad essere presenti attraverso la verticalità sulla seggiola e i piedi ancorati alla terra.

Ci vuole un esercizio per imparare ad esserci, non tanto negli stage ma nella vita. Ci vuole un esercizio per stare dritti di fronte alla vita che a tratti sa essere amara, aspra, dura.
Così nel corpo come nella mente e nello spirito: ci vuole un esercizio per ritrovarsi una persona unica, unita in questi pezzi che la modernità ha separato.

E’ sufficiente fare ginnastica dello spirito solo in uno stage all’anno? E tutto il resto del tempo trascorrerlo nel caos, nella fretta, nella mente ingombra, nel corpo consumato e dolente?
Possiamo portare lo stage nella nostra vita cercando ad ogni incontro una dose di ricarica? O è tempo di prendersi la responsabilità di portare la nostra quotidianità negli stage? Di essere testimoni reali, concreti e coerenti di questa proposta?

E’ la decisione profonda che tocca ogni persona che ha incontrato questo metodo, questa maniera di intendere la vita. Puoi evitare di scegliere per un po’, puoi rimandare certo ancora un altro poco, poi la vita sceglie per te.
Mediazione umanistica può essere una parola vuota o piena a seconda di come la accarezziamo, gustiamo, tocchiamo. Dipende da noi.

L’oggetto mediatore

Per tutti quelli che un po’ conoscono la mediazione umanistica, secondo le linee proposte da jacqueline morineau, il gioco dell’oggetto mediatore ricorda qualcosa di molto preciso e forse riecheggiano già nella mente e nella pancia forti sensazioni provate nei vari stage di formazione.

Per quelli che invece sono ancora lì a grattarsi la testa per capire di cosa stiamo parlando… beh, proprio a loro sono dedicate le prossime righe.

Spesso quando vogliamo dire qualcosa di noi non siamo in grado di farlo in modo tanto spontaneo e semplice. A volte è una questione di confusione perché non siamo abituati a parlare di come stiamo in modo esplicito, altre volte invece è una questione di scarsa abitudine a parlare di sé all’interno di un gruppo, altre volte ancora è il particolare momento della vita a rendere difficile la cosa.

Per questo spesso può aiutare un supporto, un oggetto o un’immagine che aiuti l’espressione, che in qualche modo sappia farsi mediatore tra quello che una persona è in quel momento e la condivisione con gli altri.

E’ incredibile quanto la presenza così semplice di oggetti, spesso insignificanti o proprio al primo sguardo anche brutti, possa poi caricarsi di significati inaspettati e donarci una chiarezza sul nostro stato d’animo di adesso davvero sorprendente.

Sarà che gli oggetti sanno essere silenziosi e ti danno tutto il tempo di cercare e dire quello che c’è.

Ed è bello vedere i gesti di chi parla di sé accarezzando e facendo suo un piccolo pezzo di coccio, una bambola di pezza, una foglia secca, un gioiello colorato.

Questo esercizio è un’eccezionale porta di accesso all’intimità, sia quella personale che del gruppo col quale si comincia a lavorare all’interno degli stage di formazione. E’ un sorta di riscaldamento che ci trasporta verso un altro modo di stare insieme, verso un’altra maniera di sentire, verso un’altra scansione del tempo.

Insomma è un intermediario semplice verso il tavolo della mediazione, come verso la conoscenza più profonda di sé, qualsiasi sia lo strumento utilizzato.

Ogni volta che viene proposta nei contesti formativi l’attività dell’oggetto mediatore stupisce, sia quelli che da tempo ne conoscono le forme, sia chi per la prima volta ne assaporava i contorni e gli effetti.

E’ bello vedere i visi dei presenti trasformarsi e distendersi alla ricerca dell’obiettivo che tutti cerchiamo nel nostro cammino: essere davvero noi stessi, senza maschere e senza paure.

Mediazioni imperfette

Le mediazioni sono tutte imperfette.

La nostra illusione di poter risolvere, di poter togliere dalla scena i conflitti è una tentazione sempre troppo forte per essere tenuta a bada. Non riusciamo a metterla da parte.

L’istinto del pompiere, del pacificatore, del guaritore sono connaturati al nostro pensiero. Cosicché ogni nostra azione ha la pretesa di essere risolutiva, capace di andare fino in fondo. Senza sapere bene dove sia questo grado, questo limite toccato il quale tutti i problemi scompaiono per sempre.

Come se da quel punto in poi la vita non ci chiedesse più di fare i conti con lei.

E così ci approcciamo alla mediazione convinti che si possa imparare ad acquisire un potere risolutivo che non ci appartiene. E di fronte alla mutevole forma dei conflitti, alle profonde implicazioni che ne emergono, ai cancelli invalicabili che le persone pongono chiedendone il rispetto, l’aspirante mediatore si ritrova impotente, spesso insoddisfatto, come se le sue arti non fossero mai abbastanza sviluppate e affinate.

Nella mediazione umanistica spesso si usa dire che il mediatore non sa fare niente, non deve fare niente ma deve imparare ad esserci, ad offrire una presenza di spirito che nulla ha a che fare con una tecnica. Ed è facile ribattere che una posizione del genere non sia sostenibile per un professionista, che non possa essere ammissibile mediare senza offrire un risultato. Che questa storia dell’esserci ha più vicina ai racconti zen che non a questioni di ADR.

Forse per questo altre forme di mediazione si sono fatte strada in modo più rapido proprio perché sanno rispondere meglio alle esigenze di tangibilità e praticità del nostro tempo. Per poi ritrovarsi in qualche modo monche di una parte importante che c’è ma non si vede. Altre forme di mediazione hanno offerto quello sguardo di intesa e quella stretta di mano finale che dicono al mondo che quel problema non esiste più, che così come è venuto se ne è andato e tutti felici e contenti. E magari va veramente bene così.

Forse è semplicemente un’altra cosa che chiamiamo con lo stesso nome.

La sfida della mediazione umanistica è molto alta e deve fare i conti con un contesto culturale ancora poco pronto a recepire la proposta non tanto di uno strumento ma di un cambiamento nel modo di vivere, nel recuperare la dimensione spirituale non tanto nella stanza di mediazione ma prima di tutto nella vita di tutti i giorni.

Ma probabilmente e paradossalmente proprio per questo la visione che offre attira così tanto e chi ne sperimenta il gusto è come costretto a non tornare più indietro, a cominciare un cammino lungo tutta una nuova direzione. Come se venisse toccato su dei tasti che innestano in modo quasi automatico tutta una serie di reazioni a catena.

Accettare di essere davvero a disposizione di un processo che è nelle mani di chi lo porta è complicato.

Accettare che non possiamo controllare tutto, anzi forse molto poco, è difficile.

Accettare che ogni persona è padrona dei passi che si sente in grado di fare è pesante.

Accogliere che siamo strumenti di qualcosa di più grande è sorprendente. E, in certi giorni, estremamente reale.

Riciclare

Forse nella parola riciclare si nasconde il senso profondo dell’offerta della mediazione umanistica.

La capacità di ridare vita, riutilizzare, rendere nuovamente proprio ciò che è dimenticato, nascosto, incupito, custodito nelle segrete dell’anima.

In ogni incontro di formazione si può provare come l’esperienza diretta di questa proposta riporti sempre sullo stesso punto: il bisogno di guardare dentro nel caos delle emozioni, in quella parte nera che ben conosciamo e rispetto alla quale tante volte ci sentiamo inermi, passivi, nemici.
Eppure c’è la possibilità di aprire quella gabbia, c’è la possibilità di respirare aria nuova, c’è la possibilità di ridare dignità anche al dolore per trasformarlo in uno slancio di vita.
Negli appuntamenti formativi riemergono i punti fondamentali su cui continuare a lavorare, sostenere, crescere. Stare nel percorso della scoperta personale attraverso questa lenta formazione che si nutre della ricchezza del contatto umano e del cambiamento personale, delle domande fondamentali. Che si nutre del contatto con il mistero dell’uomo, con il silenzio che ne apre la porta, con lo sguardo intenso che ne guida il cammino.
Alla ricerca di una forma di saggezza come la capacità di contemplare, di conoscere, di riconoscere.
Alla ricerca di un occhio diverso sul mondo che è quello che ci permette di vedere col cuore, di trasformare la nostra forma di sentire, di osare.