Negli stage di formazione usiamo spesso questa metafora: aprire le porte.
E’ come se la mediazione permettesse di entrare in contatto con un desiderio profondo di trasformazione, di cambiamento che ognuno di noi porta con sé in modo diverso in ogni fase della propria vita.
In questo senso possiamo pensare ai momenti di lavoro con questo strumento, che siano stage di formazione, autoformazioni, sensibilizzazioni o mediazioni poco importa, come uno spazio di cura che permette di posizionare finalmente lo sguardo sui bisogni fondamentali.
Ed è evidente come ci sia una fame di ascolto, di un linguaggio diverso, di tempo.
E’ evidente come ci sia bisogno di entrare in contatto con il nostro bisogno di pace.
Ecco allora che la metafora delle porte aperte prende forma nell’identificare i pesi che portiamo, accettarli e lasciarli andare per rendersi disponibili ad una nuova visione della vita.
Questa immagine ci aiuta a ritrovare la speranza quando ci sentiamo tanto e inevitabilmente sommersi dalle emozioni, dai conflitti, dal prezzo delle nostre scelte.
La mediazione non è una terapia anche se per tanti è un modo di prendersi cura di sé, di curare vecchie ferite e riprendere forza.
E’ piuttosto un modo di abitare la vita, di guardare alle relazioni, alle domande più profonde che l’essere umano da sempre si pone.
E’ una proposta che può far paura perché tanta è la luce che viene dallo spiraglio di quelle porte che si aprono di fronte a noi e ci danno la possibilità di rinascere.
E’ un impegno verso se stessi a guardarsi dritti nell’anima con sincerità e calore.