Mediazioni imperfette

Le mediazioni sono tutte imperfette.

La nostra illusione di poter risolvere, di poter togliere dalla scena i conflitti è una tentazione sempre troppo forte per essere tenuta a bada. Non riusciamo a metterla da parte.

L’istinto del pompiere, del pacificatore, del guaritore sono connaturati al nostro pensiero. Cosicché ogni nostra azione ha la pretesa di essere risolutiva, capace di andare fino in fondo. Senza sapere bene dove sia questo grado, questo limite toccato il quale tutti i problemi scompaiono per sempre.

Come se da quel punto in poi la vita non ci chiedesse più di fare i conti con lei.

E così ci approcciamo alla mediazione convinti che si possa imparare ad acquisire un potere risolutivo che non ci appartiene. E di fronte alla mutevole forma dei conflitti, alle profonde implicazioni che ne emergono, ai cancelli invalicabili che le persone pongono chiedendone il rispetto, l’aspirante mediatore si ritrova impotente, spesso insoddisfatto, come se le sue arti non fossero mai abbastanza sviluppate e affinate.

Nella mediazione umanistica spesso si usa dire che il mediatore non sa fare niente, non deve fare niente ma deve imparare ad esserci, ad offrire una presenza di spirito che nulla ha a che fare con una tecnica. Ed è facile ribattere che una posizione del genere non sia sostenibile per un professionista, che non possa essere ammissibile mediare senza offrire un risultato. Che questa storia dell’esserci ha più vicina ai racconti zen che non a questioni di ADR.

Forse per questo altre forme di mediazione si sono fatte strada in modo più rapido proprio perché sanno rispondere meglio alle esigenze di tangibilità e praticità del nostro tempo. Per poi ritrovarsi in qualche modo monche di una parte importante che c’è ma non si vede. Altre forme di mediazione hanno offerto quello sguardo di intesa e quella stretta di mano finale che dicono al mondo che quel problema non esiste più, che così come è venuto se ne è andato e tutti felici e contenti. E magari va veramente bene così.

Forse è semplicemente un’altra cosa che chiamiamo con lo stesso nome.

La sfida della mediazione umanistica è molto alta e deve fare i conti con un contesto culturale ancora poco pronto a recepire la proposta non tanto di uno strumento ma di un cambiamento nel modo di vivere, nel recuperare la dimensione spirituale non tanto nella stanza di mediazione ma prima di tutto nella vita di tutti i giorni.

Ma probabilmente e paradossalmente proprio per questo la visione che offre attira così tanto e chi ne sperimenta il gusto è come costretto a non tornare più indietro, a cominciare un cammino lungo tutta una nuova direzione. Come se venisse toccato su dei tasti che innestano in modo quasi automatico tutta una serie di reazioni a catena.

Accettare di essere davvero a disposizione di un processo che è nelle mani di chi lo porta è complicato.

Accettare che non possiamo controllare tutto, anzi forse molto poco, è difficile.

Accettare che ogni persona è padrona dei passi che si sente in grado di fare è pesante.

Accogliere che siamo strumenti di qualcosa di più grande è sorprendente. E, in certi giorni, estremamente reale.

Lo strano caso della mediazione umanistica

La parola mediazione comincia ad essere di moda.
Nel linguaggio comune già la usiamo per indicare la via di mezzo, quelle situazioni nelle quali si trova un buon modo di mettere d’accordo due persone, di smorzare un litigio, di trovare un ottimo compromesso accettabile.
Ultimamente quello che si fa largo è un concetto più raffinato che indica una tecnica di lavoro, una teoria e una nuova cultura delle relazioni.

La mediazione non è qualcosa di nuovo in assoluto, bensì una riscoperta che parte da molto lontano. Oggi se ne parla soprattutto come possibile alternativa al consueto modo di condurre un processo penale, offrire un’altra maniera di gestire le controversie piccole e grandi che spesso si trascinano nel tempo fino alle aule di tribunale. Così la mediazione si propone come strumento di gestione dei conflitti che a dirla tutta già era nella mani degli avvocati ma che ha trovato pochi margini per svilupparsi.

Per tante ragioni oggi i tempi sembrano maturi per una diversa entrata in scena della mediazione, un po’ perché la giustizia è davvero in crisi (siamo quasi a 5 milioni di cause pendenti in italia), un po’ perché le risposte che si ottengono dal giudice non sembrano essere soddisfacenti né per chi ha ragione né tanto-meno per chi ha torto. Anche perché il torto e la ragione spesso non sono una questione di regolamenti e di logica. E in alcune situazioni, specie quando ci sono di mezzo i rapporti più intimi, questo dato risulta eclatante.

Si parla quindi di mediazione soprattutto per quando riguarda il contesto familiare e di fronte al proliferare di separazioni (ormai siamo quasi a 2 coppie su 3 nel nostro paese) si tenta anche questa carta.
C’è tutto l’ambito della mediazione commerciale, quella che spesso viene anche definita con il termine conciliazione per trovare un accordo fuori dalle aule di tribunale rispetto a controversie che più facilmente possono trovare un beneficio per entrambe le parti.
Ed è arduo riuscire a districarsi nel dedalo di proposte che si presentano tutte sotto l’etichetta della mediazione, proposte che a volte hanno un sapore più giuridico, a volte più psicologico, a volte più sociale.

La mediazione umanistica rientra in questo contenitore affollato al quale serviranno ancora molti anni per fare chiarezza.
Di certo mi sento di dire che questo tipo di mediazione offre qualcosa di anomalo. Offre uno spazio di lavoro che è difficile definire con una tecnica, esce dalle logiche di praticità che accomunano gli altri modi di fare mediazione. Fa una specie di salto verso un modo di guardare oltre i problemi che le parti portano. Apre uno spiraglio per guardarsi allo specchio per mettersi consapevolmente in cammino verso la scoperta di chi siamo.

Ma come fai a spiegarla una cosa così?
Se sei una persona concreta e ti piace la solidità dei dati, i punti fermi, la possibilità di misurare è oltremodo sconvolgente scoprire che c’è tutta una parte della nostra esperienza quotidiana che non si arrende ai tentativi di classificare, misurare, conoscere.
Ed è quella dimensione che forse riusciamo ancora a scorgere nell’arte, nella natura, negli sguardi.
Per questo forse il modo più facile per capire il fulcro della mediazione umanistica è riproporre l’immagine di chi sta di fronte al mare o sotto il cielo e non sa bene a cosa sta pensando ma sa che le domande sono grandi e il momento solenne.