Chi ha partecipato ad uno stage di mediazione umanistica conosce l’intensità di questa esperienza.
Difficile da raccontare, ancora più difficile da dimenticare nelle emozioni in movimento, nei collegamenti con le domande essenziali della vita, nella fatica fisica di sostenere lo spalancarsi di un mondo inaspettato. Quella fatica fisica che è frutto della poca abitudine che abbiamo a stare nel silenzio, a darci il tempo, a masticare la nostra emotività sgangherata. Quella fatica fisica ad esserci, ad essere presenti attraverso la verticalità sulla seggiola e i piedi ancorati alla terra.
Ci vuole un esercizio per imparare ad esserci, non tanto negli stage ma nella vita. Ci vuole un esercizio per stare dritti di fronte alla vita che a tratti sa essere amara, aspra, dura.
Così nel corpo come nella mente e nello spirito: ci vuole un esercizio per ritrovarsi una persona unica, unita in questi pezzi che la modernità ha separato.
E’ sufficiente fare ginnastica dello spirito solo in uno stage all’anno? E tutto il resto del tempo trascorrerlo nel caos, nella fretta, nella mente ingombra, nel corpo consumato e dolente?
Possiamo portare lo stage nella nostra vita cercando ad ogni incontro una dose di ricarica? O è tempo di prendersi la responsabilità di portare la nostra quotidianità negli stage? Di essere testimoni reali, concreti e coerenti di questa proposta?
E’ la decisione profonda che tocca ogni persona che ha incontrato questo metodo, questa maniera di intendere la vita. Puoi evitare di scegliere per un po’, puoi rimandare certo ancora un altro poco, poi la vita sceglie per te.
Mediazione umanistica può essere una parola vuota o piena a seconda di come la accarezziamo, gustiamo, tocchiamo. Dipende da noi.
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